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2012-02-22
Questo Gesù, un uomo che è Dio
Angelo Card. Amato, SDB

1. Il paradosso della divino-umanità

Il titolo non è un paradosso o un gioco di  parole, ma ripropone la realtà di Gesù Cristo, che è vero Dio e vero uomo. Il Figlio eterno del Padre, che da sempre abitava nella luce inaccessibile della divinità, è apparso in mezzo a noi due millenni fa, entrando nella storia con lo scopo di salvare l'umanità dalla perdizione, dal male, dalla catastrofe: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Con l'incarnazione «l'Eterno entra nel tempo, il Tutto si nasconde nel frammento, Dio assume il volto dell'uomo».
L'«abitare in mezzo a noi» significa in concreto che Gesù nacque e visse in Palestina, nell'ambito del vasto impero romano, al tempo degli imperatori Augusto (29 a.C.-14 d.C.) e Tiberio (14-37 d.C.). Questa è la testimonianza concorde sia delle fonti cristiane sia della grande storiografia del tempo (Tacito, Svetonio, Plinio il Giovane, Giuseppe Flavio).
Con l'incarnazione, la storia umana diventa storia sacra, storia salvifica, storia, che, sorretta dalla provvidenza e dalla grazia di Cristo, ha una precisa finalità: far fiorire le mille potenzialità di conoscenza, di bontà e di amore dell'essere umano, permettengoli di approdare con maggiore speditezza e facilità nel porto della felicità eterna nella vita divina trinitaria. Alla luce dell'incarnazione, quindi, gli eventi umani non sono solo un susseguirsi caotico di fatti senza senso, ma sono sorretti, illuminati e redenti dalla trama preziosa della vicenda umano-divina di Gesù Cristo, dalla sua passione e dalla sua risurrezione. In tal modo la storia più che un vagare senza speranza nel nulla e verso il nulla, è un viaggio di figli che anelano all'abbraccio del Padre celeste.

2. La definizione di Calcedonia: Cristo una persona in due nature

Di fronte a questo fatto inaudito di Gesù Cristo, uomo e Dio, fin dall'inizio del cristianesimo, fiorirono le eresie che negavano o la sua divinità, come gli ariani, o l'integrità della sua umanità, come i monofisiti eutichiani condannati nel concilio ecumenico di Calcedonia,  nel 451 d.C.
Non mancano ancora oggi i moderni ariani, che riducono Gesù a un uomo esemplare, modello di umanità e di etica, azzerando la sua autentica identità di Figlio di Dio.
Agli ariani antichi e moderni hanno risposto i vescovi partecipanti a quarto concilio ecumenico, riaffermando senza equivoci l'integrità umano-divina di Cristo, in una definizione che è poi rimasta celebre nella storia:
«Seguendo i santi padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo,
perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità;
vero Dio e vero uomo [composto] di anima razionale e di corpo;
consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l’umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato;
generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria vergine e madre di Dio, secondo l’umanità».
Si tratta di quattro variazioni linguistiche di un’unica realtà: quella della persona di Gesù Cristo, che è vero Dio e vero uomo; perfetto come Dio e perfetto come uomo; della stessa sostanza del Padre in quanto Dio e consostanziale a noi in quanto uomo; generato dal Padre da tutta l'eternità e nato, per noi e per la nostra salvezza, da Maria, vergine e Madre di Dio.
Questa affermazione conciliare così precisa e ben articolata è il risultato non di una teosofia o di una conclusione teologica, ma di quanto è contenuto nel Nuovo Testamento. È Gesù stesso che si è presentato in questo modo.

3. L'affidabilità storica degli scritti neotestamentari

A questo punto, agganciandomi a quanto ha detto don Rinaldo Fabris sulla storia di Cristo, vorrei ricordare due conclusioni della più attendibile ricerca storica contemporanea, per fondare alcune considerazioni che faremo sull'umanità e sulla divinità di Cristo.
La prima riguarda l'affidabilità storica dei Vangeli, che non sono – come qualcuno ancora ritiene - letteratura religiosa sprovveduta e di seconda classe, senza alcun aggancio con la storia e con la realtà dei fatti. I Vangeli non sono nemmeno invenzioni tardive della comunità cristiana delle origini, che avrebbe "creato" il mito Gesù Cristo, trasfigurando la sua morte obbrobriosa in una esaltazione gloriosa e inventando l’altro mito della risurrezione dai morti. Sia i Vangeli sinottici sia il quarto Vangelo sono profondamente radicati nella storia.
Ammessa l'affidabilità storica dei Vangeli, e cioè il fatto che i Vangeli riferiscono personaggi e vicende realmente accadute, ci poniamo una seconda domanda: i Vangeli raccontano la storia di Gesù oppure intendono invitare solo ad aver fede in lui? Se sono documenti di fede non necessariamente avrebbero agganci nella storia. Purtroppo anche alcune imprudenti affermazioni catechistiche e omiletiche mettono in contrapposizione fede e storia, come se la fede fosse la negazione della storia. A questo proposito occorre ricordare quanto diceva il Beato Giovanni Paolo II sulle fonti cristiane, che, «pur essendo documenti di fede, non sono meno attendibili, nell'insieme dei loro riferimenti, anche come testimonianze storiche».
Ma la domanda può essere ulteriormente precisata. I Vangeli, che non sono trattazioni di teorie religiose, ma narrano le parole e le opere di Cristo, sono solo documenti storici affidabili, o anche vere e proprie "vite" di Gesù, come riteneva con scienza e coscienza sicura tutta la tradizione della Chiesa fino all’illuminismo?
Se la risposta fosse positiva, la conseguenza catechisticamente importante per noi sarebbe la seguente. Come per i primi cristiani, anche la nostra catechesi e la nostra evangelizzazione potrebbe consistere principalmente – come fecero i primi apostoli - nella narrazione della storia di Cristo, che è una storia di salvezza e di redenzione dell'umanità peccatrice e bisognosa di guarigione fisica e spirituale. In tal modo il cristianesimo non verrebbe visto come un insieme di precetti astratti e superati e nemmeno come una delle tanti religioni del libro, ma essenzialmente come l’incontro dell’essere umano con una persona, la persona di Gesù Cristo, maestro di verità e datore di vita.

4. I Vangeli come "biografie" di Gesù

Permettetemi di riassumere in grande sintesi questa innovativa ricerca sul carattere biografico dei Vangeli,  iniziata un secolo fa da Clyde Weber Votaw, il quale, in un articolo del 1915,  aveva posto i vangeli nell'ambito della letteratura biografica «popolare» greco-romana alla pari delle vite del filosofo Socrate (469-399 a.C.), scritte dai suoi discepoli Platone (Dialoghi) e Senofonte (Memorabilia); del taumaturgo Apollonio di Tiana (10-97 d.C.), contemporaneo di Gesù, biografato da Filostrato; del filosofo Epitteto (50-130 d.C.), biografato dal suo discepolo Arriano di Nicomedia.
Su questa scia, altri studiosi, soprattutto nordamericani e inglesi (Peter Georgi, David Laurence Barr, Judith L. Wentling, Gilbert G. Bilezikian...), hanno a poco a poco superato il duplice pregiudizio dei vangeli come Kleinliteratur e come racconti leggendari. Un significativo contributo alla linea di rivalutazione dell'affidabilità storica e biografica dei vangeli è stato dato nel 1974 da Graham N. Stanton, il quale, analizzando Luca, affermava che il terzo vangelo offre un'abbondante informazione sulla vita e sul carattere di Gesù di Nazareth.  Nel 1978 anche Charles H. Talbert inseriva tutti i vangeli nel genere biografico  e nel 1982 Philip Shuler motivava il carattere biografico del vangelo di Matteo.  In un'opera in collaborazione, edita da Hubert Cancik nel 1984 si dimostrava come il genere letterario del vangelo di Marco fosse il bios.  
Un passo fondamentale in questo senso è stato fatto da Klaus Berger,  il quale, rifiutando la teoria antistorica e antibiografica di Rudolf Bultmann, ribadiva, in un monumentale studio pubblicato nel 1984 nella prestigiosa collana storica Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt, che i vangeli sono vicinissimi alle biografie dei filosofi antichi.
A sua volta, nel 1992, l’inglese Richard A. Burridge, riassumendo quasi un secolo di studi in questa linea, concludeva la sua ricerca, affermando: «La crescente tendenza tra gli studiosi di Nuovo Testamento a considerare i vangeli come "biografici" è giustificata; è giunto ormai il tempo di usare l'aggettivo "biografico", dal momento che i vangeli sono vite (bíoi)!».  
Dominando tre campi vastissimi, come gli studi critici sui vangeli, le teorie letterarie e la produzione biografica del mondo greco-romano ed ebraico dei tempi di Gesù, Burridge ha seriamente motivato l'affermazione che i vangeli sono delle vere e proprie vite di Gesù.
Egli, infatti, si chiede: in che cosa consisteva, al tempo di Cristo, questo genere biografico? La delineazione di questo genere biografico non viene da lui fatta a priori, ma in base a un’analisi quantitativa, al computer. In concreto si confrontano i quattro Vangeli con dieci vite greco-romane, cinque scritte prima dei Vangeli e cinque dopo.
Le biografie antiche scelte sono: 1. l'Evagora di Isocrate (436-338 a.C.), che è un encomio in prosa in lode del re di Cipro appena assassinato; 2. l'Agesilao di Senofonte (428-354 a.C.), un altro encomio con molto materiale storico, in onore del re di Sparta; 3. l'Euripide di Satiro, autore di vite di tradizione peripatetica (III sec. a.C.?); 4. l'Attico di Cornelio Nepote (sec. I a.C.), che fa parte del  De viris illustribus, primo esempio di biografia romana; 5. il Mosè di Filone d'Alessandria (30-25 a.C. - 45 d.C.), che è una biografia di un personaggio biblico; 6. l'Agricola di Tacito, scritta nel 98 d.C in onore del console Giulio Agricola; 7. Catone il Minore di Plutarco (45-120 d.C.), scritta in greco e che fa parte della famosa opera Vite parallele; 8. le Vite dei Cesari di Gaio Tranquillo Svetonio (nato nel 69 d.C., sconosciuta la data di morte); 9. il Demonax di Luciano (120-180 d.C.); 10. l'Apollonio di Tiana di Filostrato (170-250 d.C.).
Da questo confronto oggettivo emergono alcune note che qualificano la biografia antica. La prima e più importante caratteristica è l'attenzione esclusiva al soggetto. Queste opere si concentrano sul personaggio biografato, che è il protagonista unico ed esclusivo dello scritto. Gli altri personaggi sono secondari. In secondo luogo le biografie antiche non sono molto lunghe, ma piuttosto succinte. Di conseguenza, la narrazione si concentra sulla parte più significativa dell’esistenza, della dottrina o delle gesta del biografato, il quale non viene dettagliatamente seguito in tutto l’arco della sua esistenza, come avviene per le biografie moderne. Un’ultima caratteristica riguarda la mancanza di esplicite trattazioni psicologiche, oggi comuni nelle biografie.
Applicando ai vangeli queste note, si giunge alla conclusione che i Vangeli sono vere e proprie vite di Gesù, del tutto simili alle biografie contemporanee greco-romane e giudaiche.
Ad esempio, l'analisi quantitativa rileva che il 44,6% del soggetto dei verbi dei Vangeli è Gesù, personaggio chiave che occupa tutta la scena dall’inizio alla fine della narrazione. Nessun altro individuo, nemmeno la Madonna o san Pietro, ottiene un'attenzione superiore all'1%. I discepoli come individui e come gruppo segnano il 12,2%; coloro ai quali Gesù parla o che aiuta il 9,3%; tutti gli altri raggiungono il 5%.  
Inoltre, i vangeli si concentrano sugli ultimi tre anni della vita di Gesù e soprattutto sulla sua morte. Questa scarsità di riferimenti agli anni dell’infanzia e della giovinezza di Cristo, è stata spesso presentata come una forte obiezione alla considerazione biografica dei vangeli. In realtà, nelle vite antiche, i primi anni dell'esistenza degli eroi o vengono trattati molto brevemente – come capita nei Vangeli di Matteo e Luca - o addirittura omessi; l'accento è posto sul periodo decisivo della loro vita e sulla loro morte.
In conclusione, quindi, i vangeli possono essere visti come vere e proprie vite di Gesù, in corrispondenza, certo, alla concezione letteraria del tempo. Non è pertanto corretto affermare che i vangeli sono solo la storia dell'esperienza cristiana delle prime comunità ecclesiali. Questo lo si può dire – in una certa misura - delle Lettere di S. Paolo, degli Atti degli Apostoli, dell'Apocalisse.
I vangeli, invece, sono concentrati su Gesù, sulle sue parole, sui suoi atteggiamenti, sulle sue opere di potenza e soprattutto sull'evento salvifico della sua morte e risurrezione. La primitiva comunità cristiana non avrebbe prodotto i vangeli come biografie, se non fosse stata interessata alla persona storica di Gesù, fonte e fondamento della propria vita di fede, di  preghiera, di missione, di servizio, di testimonianza e di martirio.
Il significato per noi di Gesù risiede proprio nella sua esistenza: «Gesù possiede significatività “per noi” – afferma Wolfhart Pannenberg – solo nella misura in cui questa significatività è insita in lui stesso, nella sua storia e nella persona che la storia manifesta».  

5. L'umanità di Cristo

Questa lunga premessa era indispensabile per motivare il nostro discorso su Gesù vero Dio e vero uomo. Il ritratto di Gesù uomo-Dio non è una creazione cristiana tardiva, ma è una realtà storica fontale, testimoniata da numerosi testimoni affidabili, che si sono arresi di fronte all’evidenza dei fatti.
E allora, attingendo con fiducia ai Vangeli e al Nuovo Testamento, possiamo evidenziare l’innegabile realtà umana di Gesù, manifestata dalla sua nascita a Betlemme, dalla sua crescita umana a Nazaret, dalla sua predicazione nella Palestina del primo secolo dell'era cristiana, dalla sua morte in croce e dalla sua risurrezione.
Non si può dubitare certo dell'umanità di Cristo, dal momento che dai Vangeli apprendiamo che egli aveva fame e sete, sorrideva, piangeva, camminava, soffriva, era tentato, aveva compassione, lodava, rimproverava, era affezionato ad alcuni amici, come a Lazzaro e alle sue due sorelle, era comprensivo con suoi discepoli. L'unica caratteristica della nostra umanità che egli non condivideva era il peccato. Cristo era l'innocente in persona. È questa la sua inequivocabile testimonianza: «Chi di voi può dimostrare che ho peccato?» (Gv 8,46). Del resto egli è ben consapevole di essere venuto per salvare, non per essere salvato. Egli è il salvatore, noi i salvati. Come dice la lettera agli Ebrei, egli è il «santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori» (Eb 7,26).

6. La sua divinità

Ed è in questa umanità santa, in questo nuovo Adamo senza peccato, che si innesta la sua divinità, che fu intuita, prima ancora dei discepoli, dagli stessi avversari, i quali iniziarono a perseguitarlo «perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio» (Gv 5,18).
La divino-umanità di Gesù fu poi celebrata sin dalla sua risurrezione nell'inno prepaolino della lettera ai Filippesi. Esortando all'umiltà, l'apostolo propone l’esempio della kénosi di Cristo Gesù, il quale «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso» (Fil 2,6-8). A ragione quindi san Paolo chiama Gesù, «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15).
A questo punto, possiamo chiederci: quali sono gli elementi evangelici per affermare la divinità di Gesù? Anche a noi, quindi, Gesù rivolge la domanda: «Voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15).
Li elenchiamo semplicemente. Il primo elemento è la predicazione, fatta da Gesù maestro con autorità assoluta. Mentre gli scribi tramandano la tradizione dei padri, Gesù insegna con una autorità che appartiene solo a Dio. Gesù non è uno dei tanti maestri, ma il Maestro, anzi la Parola stessa di Dio, il Logos «pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14), come sintetizza bene il Vangelo di san Giovanni. Emblematico, a questo proposito, l'episodio della liberazione di un indemoniato nella sinagoga di Cafarnao. Dopo che Gesù ebbe guarito il poveretto, la gente stupita si chiede: «Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti impuri ed essi se ne vanno?» (Lc 4,36). La parola di Gesù non è vuota, ma possiede l'efficacia divina della guarigione.
Un secondo elemento è dato dai suoi atteggiamenti, nei confronti della legge mosaica e del tempio. Non solo Gesù si considera libero dalla legge, ma è lui la nuova legge. Si rilegga il discorso della montagna, quando Gesù interpreta la legge con autorità: «Avete inteso che fu detto agli antichi, non uccidere [...], ma io vi dico, chiunque si adira col proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio» (Mt 5,21-22); «Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore» (Mt 5,27); «Fu pure detto: "Chi ripudia la propria moglie, le dia l'atto di ripudio". Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie [...], la espone all'adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio» (Mt 5,31-32).
Decisamente controcorrente è poi la parola di Gesù sul perdono dei nemici, anzi sull'obbligo di amarli: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti [...]. Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,43-48). Non quindi occhio per occhio e dente per dente, ma perdono e carità. È quanto hanno testimoniato i martiri e i santi in tutta la storia della Chiesa.
Parlando poi del tempio di Gerusalemme, Gesù ne preannuncia la rovina e poi aggiunge: «distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19). Alla sorpresa dei giudei, che gli fanno notare che il tempio era stato costruito in quarantasei anni, l'evangelista Giovanni nota che «egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,21). Gesù infatti è la presenza di Dio nella storia, egli è il nuovo tempio fatto non di pietra ma di carne e di sangue.
Ma poi abbiamo i numerosi episodi evangelici del particolare atteggiamento di vicinanza di Gesù agli emarginati e ai peccatori. Un giorno, a Cafarnao, Gesù guarisce un paralitico e gli rimette i peccati, provocando lo sdegno degli scribi, che in cuor loro pensano: «Perché costui parla così. Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?» (Mc 2,7). Infatti, il perdono dei peccati è opera di Dio. In questo gesto Gesù rivela la sua autentica identità di Figlio del Padre celeste.
Egli, inoltre, opera numerosissimi miracoli di guarigione, di liberazione dal demonio, di risurrezione. In questi eventi non chiede l'intercessione di altri, ma agisce in prima persona con potenza divina. Ad esempio, guarisce il paralitico della piscina Bezata, che si trovava lì da trentotto anni, dicendo semplicemente: «Alzati, prendi in tuo lettuccio e cammina» (Gv 5,8).
Anche nei confronti di Dio Gesù agisce come il figlio del Padre celeste, chiamato familiarmente "Abbà", "papà". Questo appellativo - impensabile nella preghiera giudaica - esprime tutta la tenerezza del figlio verso il proprio padre.  Tutto l'apostolato terreno di Gesù fu segnato dalla presenza e dalla carità del Padre celeste. Al battesimo al Giordano, si sentì una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11).
Ma la testimonianza conclusiva della sua divinità fu data dalla risurrezione, mediante la quale, Gesù, il Logos, fonte di ogni esistenza, mediante il quale tutto è stato creato, vince la morte e risorge col suo corpo glorioso. Fu questo evento sorprendente che convinse gli apostoli sulla sua divinità.
Notiamo che la risurrezione conferma e illumina, non "crea", la realtà divina di Gesù, che, come abbiamo accennato, emerge in tutto il suo apostolato e in tutta la sua predicazione prepasquale. I primi convertiti furono proprio i discepoli. Se prima non avevano ben compreso il mistero del loro maestro, e quindi lo avevano abbandonato sulla croce (ad eccezione di Giovanni), dopo la risurrezione lo confessano, con le parole stesse di Tommaso: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Sulla labbra dei discepoli affiora l'esplicita qualifica divina: «Mio Signore e mio Dio».
E fu questa la fede delle prime comunità cristiane e della prima evangelizzazione: l'annuncio di Gesù, come il salvatore che era morto, ma che era risorto dai morti per salvare l'umanità dal male e per condurla alla felicità senza fina della vita eterna.
La Chiesa nei primi secoli ha celebrato la divinità di Gesù Cristo e ne ha difeso strenuamente il mistero di vero uomo e di vero Dio. Come si vede, tutto quanto la Chiesa ha dogmatizzato nei concili ecumenici, soprattutto nei primi sette, non è altro che il contenuto dei Vangeli. Non sono i concili che hanno inventato la divinità di Gesù, ma è Gesù stesso che si è autopresentato come il Figlio del Padre e rivelatore del mistero trinitario.
San Giovanni nel suo Vangelo riassume il tutto dicendo: «Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha narrato» (Gv 1,18). E la lettera agli Ebrei aggiunge: «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, definitivamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio [...] sostiene tutto con la parola della sua potenza» (Eb 1,1-3).
Quanto fu detto prima dai profeti, o sarà detto dopo da altri, diventa parziale, incompleto e insufficiente. Solo nel Figlio, Dio esprime totalmente se stesso, rivelando nella storia il suo vero essere. Dice infatti Gesù: «Colui che mi ha mandato è veritiero, ed io dico al mondo le cose che ho udito da lui» (Gv 8,26); «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato» (Gv 7,16).
Gesù è voce, specchio e immagine fedele del Padre: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto» (Gv  14,6-7). Chi vede Gesù, vede e conosce il Padre: «Chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,45). In una esplosione di gioia, Gesù dice ai discepoli: «Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27).
A Filippo che gli chiedeva «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,9), Gesù rispose: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me (Gv 14,9-11).
È perfetta la loro reciproca conoscenza e comunione: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30); «Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv  13,20). E si tratta di una conoscenza d'amore: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Gv 3,35); «Il Padre ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, e voi ne resterete meravigliati» (Gv 5,20).
San Giovanni della Croce, alla richiesta di altre rivelazioni divine nella storia, risponde che, a partire dall'incarnazione del Verbo, è nella parola di Gesù che è racchiusa tutta intera la Parola di Dio:
«[Il Padre] infatti,  dandoci il Figlio suo, che è la sua parola, l'unica che egli pronunzi, in essa ci ha detto tutto in una sola volta e non ha più niente da manifestare [...].
Fissa gli occhi su Lui solo, nel quale io ti ho detto e rivelato tutto, e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri. Tu infatti domandi locuzioni e rivelazioni che sono soltanto una parte, ma se guarderai Lui, vi troverai il tutto, poiché Egli è ogni mia locuzione e risposta, ogni mia visione e rivelazione in quanto che io vi ho già parlato, risposto, manifestato e rivelato ogni cosa dandovelo per fratello, compagno, maestro, prezzo e premio».  
E Karl Barth ribadisce: «I nostri occhi vedono Dio e i nostri pensieri sono adeguati a Dio quando hanno per oggetto colui che porta questo nome, quando sono orientati a Gesù Cristo».  

7. Gesù volto misericordioso di Dio

L'incarnazione del Verbo, che è sommo evento di carità divina (cf. Gv 3,16), è soprattutto manifestazione della sua misericordia. Gesù Cristo, «il Figlio unigenito che è nel seno del Padre» (cf. Gv 1,18), «immagine visibile del Dio invisibile» (cf. Col 1,15), è nella sua persona, nelle sue parole, nelle sue azioni, nei suoi atteggiamenti il volto misericordioso del Padre «ricco di misericordia» (cf. Ef 2,4). Il suo evento, dalla nascita alla risurrezione, è la narrazione più compiuta della misericordia di Dio Trinità.
Egli vede, parla, agisce, guarisce mosso da pietà e misericordia verso gli innumerevoli bisognosi, diseredati e ammalati di ogni specie e di ogni luogo che accorrevano a lui: ciechi, storpi, paralitici, peccatori, poveri, bambini, donne, stranieri, indemoniati, lebbrosi, nemici.
Ai discepoli di Giovanni che gli chiedevano se era lui il Messia, Gesù rispose appellandosi alle opere di misericordia: «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti riscuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella» (Lc 7,22).
Vivissime sono le parabole della misericordia da lui narrate per annunziare la bontà divina: quella della pecora smarrita e ritrovata, della moneta persa e ricuperata, del figlio traviato e riaccolto a braccia aperte da un padre buono e pietoso (cf. Lc 15).
Nel vangelo di S. Matteo, due volte Gesù ripete un'affermazione incisiva del profeta Osea: «misericordia voglio, non sacrificio» (Os 6,6). Una prima volta, quando, dopo aver chiamato alla sua sequela Matteo il pubblicano, risponde alle critiche dei farisei dicendo: «Andate e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13). Una seconda volta, quando, sempre rispondendo ai farisei che criticavano i discepoli per aver raccolto le spighe di sabato per sfamarsi, ripete: «Se aveste  compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato persone senza colpa» (Mt 12,7).
Il mistero pasquale della morte e risurrezione di Gesù è il vertice della rivelazione della misericordia divina: è l'offerta del Figlio al Padre misericordioso nell'abbraccio di carità dello Spirito santo. È per amore che il Padre invia il Figlio nel mondo. È per amore che Cristo si offre al Padre per la redenzione dell'umanità peccatrice: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). È per amore che il Cristo risorto dona alla sua chiesa lo Spirito Santo: «Ricevete lo Spirito santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,22-23). L'ultimo gesto del Cristo risorto fu il dono ai discepoli del potere divino di perdonare i peccati. Credere in Dio è credere nella misericordia e «il Cristo pasquale è l'incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno vivente (vivens signum): storico-salvifico e insieme escatologico» (DM n. 8).
L'intera esistenza di Gesù, Figlio di Dio incarnato, fu talmente intrisa di bontà e di misericordia, che S. Giovanni, il testimone veritiero (cf. 3Gv 12), definisce Dio con una sola parola: «agápe» (amore, carità: 1Gv 4,8.16). Con ciò si porta a compimento la rivelazione veterotestamentaria del nome di Dio: «Dio è colui che è» (cf. Es 3,14); «Colui che è pietoso e misericordioso» (cf. Es 34,6); «Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4,16).

8. Gesù, autentico volto dell'uomo

La contemplazione e il confronto con il volto di Cristo diventa, al pari della lotta di Giacobbe con l'angelo, un mezzo per conoscere meglio noi stessi.
Diceva Pascal, in uno dei suoi pensieri: «Non solo noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo, ma non conosciamo neppure noi stessi se non per mezzo di Gesù Cristo. Noi non conosciamo  la vita, la morte se non per mezzo di Gesù Cristo. Al di fuori di Gesù Cristo non sappiamo che cosa sia la nostra vita, la nostra morte, Dio, noi stessi».
Oltre a essere esegeta del Padre, Gesù è anche esegeta dell'uomo. Oltre che rivelatore del vero volto di Dio, Gesù è anche il rivelatore del vero volto dell'uomo. Questo perchè egli è il nuovo Adamo (cf. 1Cor 14, 22.45), l'umanità nuova.
Riassumendo il dato biblico, il Vaticano II ci ha consegnato una pagina esemplare su Gesù Cristo uomo nuovo: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo [...]. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione [...]. Egli è l'uomo perfetto, che ha restituito ai figli d'Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato [...]. Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo» (GS n. 22).

9. Gesù è la vita dell'uomo

Come si accennato, il nostro annuncio di fede non deve limitarsi a presentare Gesù come uomo esemplare e come illuminato maestro di vita, ma deve estendersi anche all'aspetto più decisivo e importante del suo evento di salvezza, quello cioè della nostra divinizzazione in lui. Trascurato forse in un recente passato, è ora una realtà da mettere al centro della nostra predicazione su Gesù. Egli non è solo la guida per una umanità più giusta e solidale, ma è anche il liberatore dai nostri limiti più radicali e il realizzatore del nostro compimento supremo in Dio.
Gesù è vivo nella sua Chiesa come il Risorto eucaristico. Infatti, è presente in mezzo a noi mediante l’Eucaristia, sacramento della sua presenza reale e della nostra comunione con lui.
Nell’Eucaristia si attua l'esperienza concreta della divinizzazione dell'uomo come un dono di grazia dall'alto, piuttosto che come una sua conquista ascetica, come spesso capita in altre religioni. Tale esperienza si precisa ulteriormente non tanto come assimilazione spersonalizzante o come una immersione in un divino sconosciuto e lontano, quanto piuttosto come una comunione di amore con Dio Trinità, mediante un processo di conformazione a Cristo. Si tratta di un'esperienza spirituale fondamentale, che può essere espressa con vari termini, come comunione, divinizzazione, partecipazione, conformazione, assimilazione, incorporazione.
Nella sua esistenza terrena Gesù chiamò i discepoli a «vivere» con lui, invitandoli alla sua «sequela», alla sua «imitazione» e alla piena «comunione» e «condivisione» con lui nella preghiera, nell'apostolato, nel sacrificio della croce.
Questa esperienza la troviamo tematizzata nei vangeli, soprattutto in quello di Giovanni, e nelle lettere paoline. Paragonando se stesso alla vite e i discepoli ai tralci, Gesù afferma: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla [...]. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,4-9).
Senza comunione con Gesù non esiste apostolato e non c'è partecipazione alla vita divina trinitaria. Nel quarto vangelo l'eucaristia è il sacramento della comunione con Gesù sulla terra: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me» (Gv 6,6-57). La comunione con Gesù è comunione con il Padre: «Io sono nel Padre e voi in me e io in voi» (Gv 14,20). Questa esperienza fece dire a San Paolo: «Per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21). I santi sono modelli esemplari di questi vita in Cristo.


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